Per capire come la temperatura e il tempo influenzino la crescita e l’attività microbica, immaginiamo lo yogurt tradizionale: del latte miscelato con particolari ceppi batterici è posto in appositi contenitori ad una determinata temperatura (35-37°C) per un tempo sufficiente ad ottenere le caratteristiche sensoriali desiderate che verranno mantenute inalterate ricorrendo necessariamente alla refrigerazione (2-4 °C) e al suo consumo entro un periodo ben definito. Se volessimo ora scomporre creativamente in ogni parte quanto detto ci troveremo ad avere un contenitore (packaging), degli ingredienti / nutrienti (latte e lattosio), i batteri (Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus), il tempo e la temperatura (di produzione, di fermentazione, di conservazione,…). Ecco che il mix di tutti questi elementi discrimina la crescita o il blocco dello sviluppo batterico. Generalizzando, temperature intorno ai 25-35 °C favoriscono la crescita, mentre a range inferiori lo sviluppo è rallentato o in alcuni casi bloccato. Inoltre, proporzionalmente tanto più lungo è il tempo nel quale un alimento “contaminato” è mantenuto nelle condizioni ideali, tanto più favorita sarà la sua moltiplicazione.
Un altro prodotto, ancor più comune, può essere utilizzato come esempio: il pane. Durante la sua produzione, l’impasto lievita tanto più velocemente e vigorosamente quanto più alta è la temperatura ambiente. Ciò risulta vero solo entro certi limiti di temperatura oltre i quali l’attività microbica si blocca e questo, semplificando, ha permesso di constatare che il Saccharomyces cerevisiae (lievito di birra) ha almeno una temperatura di “crescita ottimale” (25-30 °C) e una “letale” (40-45 °C).
Sia nello yogurt che nel pane i batteri si rivelano utili ai fini della produzione alimentare, non sempre però sono così amici. Esistono infatti numerosi microrganismi alterativi che, avendo gli stessi comportamenti di crescita visti in precedenza, possono moltiplicarsi e causare problemi sanitari quando presenti nei prodotti alimentari non correttamente processati e/o conservati che ci ritroviamo consciamente o inconsciamente ad ingerire. Ecco che l’applicazione di opportune temperature e trattamenti termici possono prevenire ed impedire tale negativa evenienza.
Pastorizzazione e sterilizzazione sono tra i trattamenti termici applicativi più noti tra quelli volti a distruggere sia i microrganismi patogeni che quelli alterativi. Generalmente, con il primo processo menzionato un alimento viene “stabilizzato” mediante inattivazione di quegli enzimi e dei microrganismi causa di alterazione, mentre con il secondo quasi nessun microrganismo, patogeno o non patogeno, risulta in grado di sopravvivere e si ha quindi anche un effetto “sanitizzante“. Quanto detto lo si può osservare tra gli scaffali di un supermarket dove, molto spesso, gli alimenti pastorizzati possono essere conservati solo per periodi più limitati nel tempo e associati frequentemente ad altri fattori quali refrigerazione, bassa aw, basso pH, alta concentrazione zuccherina, salagione, ecc.., per prolungarne la shelf–life.
Cercando di riassumere quanto detto sino ad ora, progettare un trattamento termico adeguato su di un prodotto alimentare è cosa abbastanza complessa e la scelta tra pastorizzazione e sterilizzare altrettanto difficile. Devono essere considerati diversi fattori tecnici molti dei quali si intrecciano anche con aspetti commerciali di marketing, comunicativi e farli conciliare non è sempre facile.
Con questo post la parte introduttiva lascerà spazio alla parte applicativa che cercheremo di illustrare al meglio utilizzando qualche esempio dove possibile.
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